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Nella Naturalis Historia Plinio il Vecchio chiama Campi Leborini – dal nome della popolazione locale dei Libùri – il territorio compreso tra le vie consolari che collegavano Cuma a Pozzuoli e a Capua. Abitata fin dall’Età del Bronzo dagli Ausoni, l’area che comprendeva anche l’attuale provincia di Caserta fu chiamata “Terra di Lavoro”, una delle zone più fertili del Sud Italia, definita dagli scrittori dell’epoca come la vera e propria Campania Felix. Dal punto di vista amministrativo il territorio fu reso autonomo da Federico II nel 1221 e in breve la regione arrivò a comprendere anche ampie parti delle attuali province di Napoli, Avellino, Latina, Frosinone, Benevento, fino a Capriati al Volturno, nell’attuale Molise. Settecento anni di unità amministrativa furono però cancellati dal decreto legge del 2 gennaio 1927 con cui il governo Mussolini depennava la Provincia di Terra di Lavoro (che aveva come capoluogo Caserta) arretrando il confine della Campania sulla linea del Garigliano. I comuni a nord di questo fiume furono aggregati alla neonata provincia di Latina, mentre i comuni della prefettura di Piedimonte Matese passarono a Benevento assieme ad altri sette comuni della provincia di Campobasso. Il regime creava in Italia 17 nuove province e ne sopprimeva una, antichissima e nobile: Terra di Lavoro, con i suoi 5.269 Kmq ed una popolazione di867.826 abitanti suddivisi in 192 Comuni.

Terra di Lavoro

Negli affreschi di alcune ville patrizie delle città vesuviane di Pompei ed Ercolano ritroviamo gli stessi frutti e gli stessi ortaggi che fino a pochi anni fa le massaie campane acquistavano al mercato ed utilizzavano in cucina, come elementi essenziali della ormai celebre “dieta mediterranea”. Ma negli ultimi 30 anni nuovi stili alimentari e una distorta percezione “del bello e del buono” da parte della maggioranza dei consumatori, più attenti all’estetica di ciò che mangiavano che ai contenuti, hanno relegato in posizione sempre più marginale risorse ed abitudini alimentari di tradizione millenaria. Anche in agricoltura, in quegli anni, la crescita demografica e la ricerca scientifica hanno imposto nuovi modelli produttivi, più attenti alla redditività che alla qualità.

Oggi finalmente, grazie ad una nuova consapevolezza dei consumatori sull’importanza di una corretta alimentazione, unita ad un rinnovato interesse per le tradizioni della propria terra ed alla maturata attenzione ai temi della sicurezza alimentare e della salvaguardia ambientale, questo patrimonio è tornato alla ribalta.

L’antica Terra di Lavoro è oggi una regione che appartiene più alla storia che alla geografia, ma l’Alto Casertano rimane ancor oggi la sua area più fertile della Campania, con una forte e redditizia economia agricola. La floridezza dei terreni, in particolar modo quelli collinari, è dovuta alle eruzioni e alle colate pleistoceniche del massiccio vulcanico di Roccamonfina che ha creato condizioni ideali per colture di cereali, legumi e ortaggi, ma anche per il castagno, la vite, l’ulivo. Notevole anche la presenza di acque vulcaniche che scaturiscono da sorgenti di acque oligominerali (Sessa Aurunca e Suio, Francolise e a Teano).

Allevamento di bufale

L’allevamento di bufali e bovini trova condizioni molto favorevoli e le mozzarelle di bufala prodotte tra Capua e il basso Volturno raggiungono vertici di assoluta eccellenza.

Protagonisti della cucina dell’Alto Casertano sono i legumi d’ogni specie, da mangiare da soli appena estratti dal “pignatiello” o con la pasta a completamento di una nutriente minestra. Le cime di rapa passate in padella con congrua scorta di aglio e peperoncino, diventano i mitici “friarelli”. Melanzane e peperoni – botanicamente solanacee come il pomodoro e il tabacco – si sono acclimatati da secoli. Le prime, arricchite di mozzarella, pecorino grattugiato e salsa di pomodoro acquisiscono lo status di “parmigiana”, mentre i peperoni della pregiata cultivar “Quadro di Francolise” giungono sulle tavole in agrodolce o imbottiti con pan grattato, alici e capperi.

Tradizionale è anche la coltivazione dei cardi gobbi o “cardoni” con cui nei mesi invernali si prepara una nutriente e vellutata crema-zuppa. Si tratta di una cucina povera che rispecchia la composizione sociale della gente di questa terra, mai entrata nel passato in contatto con l’opulenza della corte reale che pure a Caserta ha avuto la sua Reggia.

Pomodori del casertano

La carne compare raramente sulle tavole. Viene venduta fresca, appena macellata e necessita quindi di quelle lunghe cotture che hanno reso celebri piatti come il “ragù”, la “genovese” o le “braciole ‘mbuttunate”. Generalmente viene molto lavorata e insaporita con ortaggi, origano, aglio, peperoncino. Negli ultimi anni sta avendo un buon successo commerciale anche la carne di bufalo e il suo utilizzo si sta sempre più diffondendo come alternativa d’elite alla carne bovina classica.

Immancabili sulle tavole i pomodori locali di eccelsa qualità e profumo intenso, quasi “una mezza religione”. L’industria conserviera casertana ha portato in tutto il mondo sia i “pelati” sia il “concentrato” di pomodoro. In ambito casalingo nelle campagne e nelle città continua la tradizione di conservarne abbondanti scorte per gli usi di cucina. Ecco i pomodori in bottiglia, fatti a pezzi oppure passati per essere sempre pronti alle utilizzazioni più varie, ed ecco la celebre “conserva” in cui il pomodoro viene stracotto fino a diventare una crema cupa e vellutata. Pomodori freschi e sugosi da mordere appena staccati dalla pianta o da adagiare a filetti sulla pizza perché il loro sapore si unisca in stupendo accordo a quello della mozzarella e delle acciughe.

Il pesce è riservato alle grandi occasioni, cucinato spesso anch’esso con le verdure e cotto al forno. Anche i primi piatti vengono spesso conditi con le verdure, ma non mancano i condimenti a base di acciughe che si accompagnano sempre con aglio, prezzemolo e peperoncino.

Fra i dessert, oltre ai gelati e alle “cassate” va ricordata la famosa mela annurca di cui il Casertano è ricchissimo, una mela di polpa bianca, compatta e croccante, di sapore dolce acidulo, aromatica e profumata.

Il Vino

Pallagrello, Casavecchia e Asprinio sono i vitigni autoctoni più importanti di quest’area.

Il Pallagrello è uno dei pochi casi di vitigno sia a bacca bianca che rossa, riscoperto e valorizzato da Ferdinando IV di Borbone, che se ne fece impiantare una grande quantità nella sua “Vigna del Ventaglio”.

Il Casavecchiaderiva il suo nome deriva dal fatto che una piantina miracolosamente sopravvissuta alla fillossera di metà ‘800 fu trovata viva e vitale tra i ruderi di una vecchia casa romana. Pare che proprio la Casavecchia fosse l’uva che dava corpo al famoso “trebulanum”, uno dei vini preferiti dai romani.

Coltivazione di Asprinio

L’Asprinio è un vitigno a bacca bianca i cui grappoli crescono su tralci avvinghiati ad alberi di pioppo e che si arrampicano fino a 15 metri da terra, da cui si ricava un vino bianco agrumato, aspro e dissetante.

Infine va citato il Galluccio, un vino DOC ottenuto da viti di Aglianico (nella tipologia rossa) e di Falanghina (per il bianco) che crescono sulle pendici del vulcano di Roccamonfina, i cui terreni conferiscono alle uve profumi, odori e struttura formidabili.

Fra tutti i vini il più famoso nell’antichità era il Falerno che si produce ancora oggi nella provincia di Caserta. Al tempo dei Romani era soltanto rosso e veniva descritto come forte e durevole e, se giovane, talmente aspro da non poterlo bere. Piaceva solo dopo anni e anni di invecchiamento. Orazio lo chiamava vino di fuoco e Persio lo definiva indomito. Si pretendeva che il suo periodo di invecchiamento andasse dai 10 ai 20 anni. Orazio parla di un Falerno, prodotto nelle sue vigne che aveva come lui 33 anni. Cicerone invece diceva che un invecchiamento eccessivo rendeva il Falerno imbevibile. Secondo molti studiosi il Falerno doveva assomigliare, tra i vini che oggi beviamo non tanto all’attuale omonimo rosso quanto allo sherry ed era di un colore paglierino scuro. Se ne trovavano di due tipi: quello secco e quello semidolce. Quest’ultimo lo si otteneva praticamente per caso a seconda dell’andamento stagionale. Se nel periodo della vendemmia il vento soffiava costantemente da sud, le uve si “asciugavano” e la loro concentrazione zuccherina aumentava.

L’Olio

Olive di Gaeta

Questo spicchio del territorio casertano è la culla dell’oliva di Gaeta, una varietà di oliva nera la cui lavorazione particolare ne fa uno dei prodotti più appetiti sulle tavole di tutta Italia. L’olio fu una componente basilare dell’alimentazione dei Romani e venne utilizzato anche per usi diversi da quello alimentare, quali la medicina, la cosmesi e l’illuminazione. Ciò spiega le quantità ingenti di olio che giungevano a Roma dai paesi conquistati; è stato calcolato che un cittadino romano consumava due litri di olio al mese.

Esistevano diverse qualità di olio: il migliore era l’olio vergine, o di prima spremitura “oleum flos”, dal costo molto elevato, l’olio di seconda qualità “oleum sequens”, più economico; ed infine un olio di qualità ordinaria “oleum cibarium”. Con la denominazione di ”oleum flos” si indicava spesso l’olio che proveniva dalle zone aurunche e limitrofe. Testimonianze della lavorazione delle olive per l’estrazione di olio le ritroviamo già dal periodo tardo repubblicano (50 a.C. – 50 d.C.) a Francolise dove in una villa rustica sono state trovate tracce di un impianto per la molitura delle olive.

Per secoli l’olio è stato utilizzato anche come mezzo di conservazione nel tempo di qualsiasi ortaggio: peperoni, melanzane, zucchine, pomodori, carciofi… Queste preparazioni permettevano di prolungare nell’arco dell’intero anno solare la disponibilità dei prodotti di stagione. Nelle zone a più alto tasso di umidità l’olio d’oliva veniva e viene utilizzato anche nella maturazione di salumi e formaggi molto rinomati ed apprezzati sia nel passato che oggi, grazie all’opera di qualche allevatore locale. L’olio extravergine di oliva “Terre Aurunche” è ottenuto dalla spremitura delle olive di ciltivar “sessana” per almeno il 70%.



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